Aneddoto. Ed i bimbi a dire: “Avimu fami”
(scritto da Salvatore Reggio, secondo una testimonianza del prof. Mario Mancini) A volte le cose non andavano come dovevano. La sensazione che quella sera e per quella famiglia la visita ed il rilevamento della cena avrebbe avuto qualche intoppo si intuiva già nella visita all’ora di pranzo. “Pensu ‘ca stasira non ci simu” (Penso che stasera non saremo in casa) oppure “Stasira non pensu ‘ca mangiamu” (Stasera non penso mangeremo) dicevano le donne di casa alle assistenti durante la preparazione del pranzo. Quell’intercalare “pensu” era profetico. Esso non era il semplice io penso, presente indicativo del filosofico pensare, e non esprimeva nemmeno una tangibile indeterminatezza di una persona o di un gruppo di persone che penserebbero in quel modo. No! Pensu, era un termine misterioso che dava alla comunicazione un senso ancestrale di un messaggio soprannaturale che, anche se non veniva condiviso, bisognava accettare proprio perché veniva dall’alto o addirittura dall’aldilà. Se il fato ha pensato così non era da cristiani disobbedire al volere divino. Quella sera, così, mentre ci avvicinavamo alla casa, i nostri dubbi prendevano più consistenza. All’imbocco della stradina che ci portava alla famiglia un rumore di passo svelto o di corsa ci anticipava e destava la nostra curiosità. Poi sentivamo il rumore di una porta che, strascinando, si chiudeva. Qualcuno aveva fatto da palo per avvertire del nostro arrivo. Noi ormai ci eravamo preparati a questi atteggiamenti, alle manifestazioni di resistenza di alcune famiglie vuoi per timidezza e vuoi per non scoprire lo stato di povertà. Quando eravamo sulla porta, appena bussato con il pugno della mano, la porta si dischiudeva quel tanto che permetteva di intravedere il viso dell’interlocutore e sentire la sua parola, quasi sempre una donna. “Mangiammu già. Picchi non veniti dumani” (Abbiamo già mangiato,ormai. Perché non passate domani?) ci veniva detto. Era, però, gente semplice e buona cosicchè appena insistevamo un po’ per avere i dati del rilevamento tutta la porta si apriva e venivamo accolti, sì con imbarazzo ma sempre in modo gentile, ed in tutta fretta ed agitazione si predisponevano le sedie per stare al tavolo. Il medico ed una assistente impegnavano i genitori nella discussione mostrandosi interessati a sapere com’era andata la giornata. Un’altra assistente si defilava con i bambini per conoscere la verità che era da noi sospettata. Gli adulti raccontavano di aver mangiato di bene in meglio “pasta asciutta o col ragù, carne di prima scelta, pesce fresco, contorno e frutta” (ci mancava solo il dolce per rendere quel pasto pari a quello delle feste solenni). Si stava tutti nella stessa stanza. Il tavolo – come in tutte le case popolane - stava al centro. Su di esso si mangiava e si stirava, diventava a tavula per prendere il caffè insieme agli amici o per offrire il rosolio agli ospiti, serviva come u tavulu per studiare e per le conversazioni con gli amici ed i parenti. Esso aveva una funzione di regolazione di tutto l’ambiente ed il suo posizionamento creava ai rispettivi angoli della stanza due zone private nelle quali si riusciva a parlare senza essere ascoltati dagli altri anche perché il capotavola e le due persone sedute lateralmente facevano da parete. In quest’angolo si erano appartati la nostra assistente con i figli piccoli. E così i bambini che con il pugno si strofinavano gli occhi lucidi, singhiozzando dicevano di non avere mangiato e si lamentavano: “Avimu fami” (Abbiamo fame). Alla fine, veniva fuori una tacita complicità in cui ognuno comprendeva le ragioni dell’altro che per gli studiosi erano quelle di osservare e rilevare usi, costumi e alimentazione della gente del posto e per le famiglie quelle di proteggere con orgoglio il proprio stato sociale, sì povero ma fatto di onesto lavoro. E così si stabiliva di ritornare più tardi o di annotare i consumi di quella sera nella visita del giorno dopo. |
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